Critica

Orietta Mengucci lavora sulle trasformazioni, le trasformazioni che la materia (argilla, carta, legno) assume sotto le sue mani. Infatti è lei stessa a dire che è interessata prima di tutto al processo, e solo in seconda istanza al risultato. Il processo di cui parla è quello attraverso cui le terre e le carte si corrompono per assumere nuove forme. E’ come se il suo studio fosse un laboratorio di fisica, un acceleratore temporale, celato sotto un cortile di Testaccio, che le consente di viaggiare nel tempo, non solo quello storico ma anche quello della materia.
Non è un caso se Orietta scultrice nasce dopo aver visto la grande mostra romana su Ebla, con le sue numerose tavolette di argilla che hanno attraversato i millenni per conservarci la scrittura cuneiforme. Ci sono già gli elementi che segneranno più tardi tutta le sua produzione: l’uso dell’argilla da scultrice e non da ceramista, con l’abbandono della smaltatura e l’uso dei colori di terra unita all’attrazione per i “segni”. La strada della scrittura viene presto abbandonata in favore di forme monolitiche. Grandi Dolmen dove l’argilla ha l’aspetto del ferro arrugginito. Le sculture rimandano, infatti, ad un’epoca remota della Terra, di cui sono traccia, segno e materia, portando su di se le stimmate del tempo: fratture, lesioni, macule. Si tratta ovviamente di un tempo che non è realmente trascorso; in altre parole di una trasformazione della quale l’artefice è l’artista. Orietta prova non tanto a governare questa metamorfosi della materia ma ad indirizzarla scegliendo i materiali e i colori che si modificheranno in una duplice interazione tra essi e con il tempo. Sarà la materia stessa a trasformarsi da se, seguendo le proprie leggi e così una fessura si aprirà durante la cottura, o, come accade nei lavori più recenti, un foglio si lacererà al contatto con la calce e lascerà trasparire ciò che c’è sotto, mostrando una vena rossa colore della Terra ma anche del sangue.

Proprio nelle opere recenti questa ricerca si spinge ancora più in profondità. Il supporto, come accennato, diventa la carta, sulla quale stende calce, argilla ed altra carta. Grazie a questo contatto la materia prende vita, acquistando forme, spessori e colori imprevisti ed imprevedibili come fosse un organismo vivente. Ci si accorge che questo lavoro sulla materia inanimata è in realtà uno scavo dentro la materia sensibile. Non per nulla Orietta chiama la superficie dei suoi lavori “pelle”. Nelle sue opere finiamo per vedere il nostro ritratto di donne ed uomini trasformati dalla vita e dalla vita resi imperfetti e lacerati, ma non per questo meno belli.

Francesco Feola, critico d'arte